Nel carme
LI Catullo, traducendo una poesia di Saffo, ci descrive la fenomenologia della passione amorosa. Si potrebbe subito sollevare un'obiezione. Se la poesia in questione è un mero esercizio di traduzione, come può risultare vero quel sentimento che il poeta descrive, ossia come può esserci una brace ardente dietro il "lepos" della parola?
Basta leggere la biografia catulliana per comprendere la posizione valoriale che la vicenda amorosa occupa nel suo "Liber". L'amore è per Catullo quel nodo essenziale, quell'esperienza senza la quale lo slancio vitale non esisterebbe, la vita sarebbe nulla, l'elettrocardiogramma sarebbe piatto, senza onde, senza ritmo ( parola saffica ).
Nel carme LI Catullo entra nel testo della poetessa di Lesbo e lo fa suo: beato, egli dice, colui che può sedersi accanto a Lesbia, guardarla ed ascoltarla ridere. Mentre per colui che osserva la scena da lontano, ossia il poeta, non resta che la miseria della lontananza, dell'essere tagliato fuori da una scena d'amore, non resta che il ruolo di un "tertium", di figura scomoda il cui amore non avrà mai un riconoscimento giuridico e sociale.
Piccola parentesi, di non poco conto però:
La donna che Catullo ama è una donna sposata, eppure egli vorrebbe dare a questo amore adultero la veste di un legame matrimoniale, vorrebbe legare a sé la "puella" spergiura con un patto, un "foedus" che sancisca la loro unione ad un livello sacro, ufficiale. Ecco perché nel carme LXXII dichiara di amare la sua donna non << tantum ut vulgum amicam,/ sed pater ut gnatos diligit et generos >>. La totalità dell'amore, dunque, e la sua forza devastante, alla quale però, differentemente da Lucrezio, Catullo non si sottrae.
Ecco allora che il carme prosegue raccontando gli effetti superficiali e fisici di questa passione: l'intorpidimento della lingua, ossia la parola che diventa balbuzie, la lingua che non risponde alla funzione dell'apparato fonatorio, la perdita della parola come indice di scadimento di quel tratto, di quella facoltà che distingue l'uomo dalle fiere; le orecchie che ronzano, gli occhi << che si ricoprono di una notte gemella >>, la vista che in questo climax ascendente viene lasciata per ultima, in quanto senso principe nell'uomo, diventa annebbiata, è la perdita dell'orientamento, la notte dell'amore. Scendendo in profondità Catullo passa poi dall'esperienza fisica dell'amore ad un'indagine sotterranea su quelli che sono gli effetti non visibili del sentimento, i suoi cunicoli nascosti. Catullo si mette cioè in ascolto del suo male interiore, della sua ferita.
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Compare allora la sua riflessione
sull'<> ( termine la cui importanza è sottolineata dalla ripetizione anaforica con poliptoto ), un termine che tranquillamente potremmo associare a quello di viltà, accidia, scaricamento della volontà. Catullo si mette a nudo davanti ai lettori contemporanei e futuri e mostra loro come l'amore lo abbia svuotato di forza, lo abbia ridotto ad una massa di macerie, come domini in lui il sentimento di una rassegnata impotenza. Sta trivellando il suo animo, ci sta dando la diapositiva - in parole plastiche - del suo dolore. Poi ad un tratto si ferma, forse si sta spingendo troppo oltre, scavare nei recessi dell'animo è un processo complesso e lacerante. Torna allora nella sua posa più comune, quella del sorriso ammiccante e sornione e paragona la sua vicenda a quella di tante città e di tanti regni che sono caduti a causa di questa accidia, di questo abbandonarsi agli eventi. Un povero poeta come lui, che re non è e non lo sarà mai, come farà a risollevarsi dal buio che funesta la sua vita, se neanche i << reges >> e le << beatas urbes >> hanno potuto tenere testa alle fiamme della corruzione, del caos, della distruzione?
Come possiamo salvarci da un amore?
Catullo sembra dirci che l'unica salvezza è bruciare, consumarsi. Ci ricorda tanto il caro Montale quando affermava non senza un certo amaro compiacimento, nella poesia << Portami il girasole >>, dedicata alla donna amata, << Svanire / è dunque la ventura delle venture >>.