lunedì 28 dicembre 2020

ESSERE INFINOCCHIATI

Essere psicoanalisti è semplicemente aprire gli occhi sull'evidenza che non c'è nulla di più incasinato della realtà umana. Se credete di avere un io ben adattato, ragionevole, che sa navigare, riconoscere ciò che c'è da fare e ciò che non bisogna fare, tenere conto della realtà, non rimane che mandarvi lontano da qui. La psicoanalisi, congiungendosi in questo con l'esperienza comune, vi mostra che non c'è nulla di più stupido di un destino umano, ovvero che si resta sempre infinocchiati.

Anche quando si fa qualcosa che riesce bene, non è proprio quello che si voleva. Non c'è nessuno più deluso di qualcuno che dichiari di essere arrivato al colmo dei suoi auspici, basta parlare tre minuti con lui, francamente come forse solo l'artificio del divano psicoanalitico permette di fare, per sapere che alla fin fine di quella roba se ne infischia altamente, e che per di più è particolarmente infastidito da ogni sorta di cose. 

L'analisi è accorgersi di questo, e tenerne conto.

 J. Lacan

lunedì 21 dicembre 2020

ATTRAVERSARE IL DESERTO

Le letture di oggi invitavano a riflettere sul valore del "deserto". Ci siamo mai chiesti che cosa rappresenti il deserto per noi, e in quali occasioni abbiamo avvertito di averlo attraversato o di avervi indugiato? Nella mia personale opinione, il deserto non ha a che fare con l'immagine stereotipata di un luogo povero di tutto, spoglio ed arido. Il deserto, al contrario, nella sua povertà di presenze materiali è un luogo ricco, pieno di noi stessi, del nostro cuore, della nostra possibilità di riflettere su ciò che siamo. 

Questo è un periodo che in qualche modo ha rappresentato l'attraversamento di un deserto metaforico: ci ha obbligato ad allontanarci da tutto e da tutti, ci ha sottratto alle folle della mondanità, ai suoi allettamenti, ai facili entusiasmi. Eppure, se guardo alla mia condizione, ho come la sensazione che questa privazione mi abbia regalato moltissimo, al di là di ciò che mi ha sottratto: mi ha ridato me stessa, il << vindica te tibi >>, la possibilità di costruire con pazienza un dialogo quotidiano con la mia anima, di riavvicinarmi alla mia fragilità, di firmare un armistizio con il mio passato, di ripensare a chi ero e a come vivevo quando ero poco più che una bambina.

Questo deserto mi ha restituito la voce nel silenzio, mi ha ridato la vista nel buio, mi ha preso la mano nella solitudine. Credo che questa sia la conquista più grande di chi attraversa qualsiasi deserto: trovare lo spirito. 

Ed ogni giorno di più ci si scopre indifferenti alle cose materiali, felici del niente, estranei alla pantomima del potere, lontani dall'arrivismo della società, sordi ai richiami di chi vive di odio e rancore. Non si cade più nella provocazione di chi la cerca per esistere, non si sente più il bisogno di rispondere agli attacchi, non esiste più il tempo dell'inimicizia. Il deserto ti insegna la solidarietà e l'altruismo, la preghiera e il volto della Natura. Nel deserto si fanno incontri meravigliosi, e in ognuno di essi c'è il nostro volto, quel volto che si è finalmente riconciliato con i tasselli scomposti della nostra vita. 

Questo deserto mi ha insegnato che non ho bisogno di esistere per gli altri per esistere, oggi esisto solo per me stessa, e per quelle mani amorevoli che non mi hanno mai lasciato. E alla fine di questo deserto vedrò solo l'amore, l'amore immenso che era già dentro il deserto e che ho portato con me in tutto questo viaggio.

IL CARME LI DI CATULLO - UNA RILETTURA

Nel carme LI Catullo, traducendo una poesia di Saffo, ci descrive la fenomenologia della passione amorosa. Si potrebbe subito sollevare un'obiezione. Se la poesia in questione è un mero esercizio di traduzione, come può risultare vero quel sentimento che il poeta descrive, ossia come può esserci una brace ardente dietro il "lepos" della parola?

Basta leggere la biografia catulliana per comprendere la posizione valoriale che la vicenda amorosa occupa nel suo "Liber". L'amore è per Catullo quel nodo essenziale, quell'esperienza senza la quale lo slancio vitale non esisterebbe, la vita sarebbe nulla, l'elettrocardiogramma sarebbe piatto, senza onde, senza ritmo ( parola saffica ).

Nel carme LI Catullo entra nel testo della poetessa di Lesbo e lo fa suo: beato, egli dice, colui che può sedersi accanto a Lesbia, guardarla ed ascoltarla ridere. Mentre per colui che osserva la scena da lontano, ossia il poeta, non resta che la miseria della lontananza, dell'essere tagliato fuori da una scena d'amore, non resta che il ruolo di un "tertium", di figura scomoda il cui amore non avrà mai un riconoscimento giuridico e sociale. 

Piccola parentesi, di non poco conto però:

La donna che Catullo ama è una donna sposata, eppure egli vorrebbe dare a questo amore adultero la veste di un legame matrimoniale, vorrebbe legare a sé la "puella" spergiura con un patto, un "foedus" che sancisca la loro unione ad un livello sacro, ufficiale. Ecco perché nel carme LXXII dichiara di amare la sua donna non << tantum ut vulgum amicam,/ sed pater ut gnatos diligit et generos >>. La totalità dell'amore, dunque, e la sua forza devastante, alla quale però, differentemente da Lucrezio, Catullo non si sottrae. 

Ecco allora che il carme prosegue raccontando gli effetti superficiali e fisici di questa passione: l'intorpidimento della lingua, ossia la parola che diventa balbuzie, la lingua che non risponde alla funzione dell'apparato fonatorio, la perdita della parola come indice di scadimento di quel tratto, di quella facoltà che distingue l'uomo dalle fiere; le orecchie che ronzano, gli occhi << che si ricoprono di una notte gemella >>, la vista che in questo climax ascendente viene lasciata per ultima, in quanto senso principe nell'uomo, diventa annebbiata, è la perdita dell'orientamento, la notte dell'amore. Scendendo in profondità Catullo passa poi dall'esperienza fisica dell'amore ad un'indagine sotterranea su quelli che sono gli effetti non visibili del sentimento, i suoi cunicoli nascosti. Catullo si mette cioè in ascolto del suo male interiore, della sua ferita.

Compare allora la sua riflessione sull'<> ( termine la cui importanza è sottolineata dalla ripetizione anaforica con poliptoto ), un termine che tranquillamente potremmo associare a quello di viltà, accidia, scaricamento della volontà. Catullo si mette a nudo davanti ai lettori contemporanei e futuri e mostra loro come l'amore lo abbia svuotato di forza, lo abbia ridotto ad una massa di macerie, come domini in lui il sentimento di una rassegnata impotenza. Sta trivellando il suo animo, ci sta dando la diapositiva - in parole plastiche - del suo dolore. Poi ad un tratto si ferma, forse si sta spingendo troppo oltre, scavare nei recessi dell'animo è un processo complesso e lacerante. Torna allora nella sua posa più comune, quella del sorriso ammiccante e sornione e paragona la sua vicenda a quella di tante città e di tanti regni che sono caduti a causa di questa accidia, di questo abbandonarsi agli eventi. Un povero poeta come lui, che re non è e non lo sarà mai, come farà a risollevarsi dal buio che funesta la sua vita, se neanche i << reges >> e le << beatas urbes >> hanno potuto tenere testa alle fiamme della corruzione, del caos, della distruzione? 

Come possiamo salvarci da un amore? 

Catullo sembra dirci che l'unica salvezza è bruciare, consumarsi. Ci ricorda tanto il caro Montale quando affermava non senza un certo amaro compiacimento, nella poesia << Portami il girasole >>, dedicata alla donna amata, << Svanire / è dunque la ventura delle venture >>.

mercoledì 16 dicembre 2020

PARLARE O TACERE

Ultimamente, in vista della preparazione del concorso, mi è capitato di rileggere due opere straordinarie, il << De tranquilliate animi >> di Seneca e l' << Agricola >> di Tacito. Entrambe sono come animate da una Weltanschauung comune: il senso dell'impegno attivo che contraddistingue il sapiens anche nelle situazioni di maggiore difficoltà. 

Seneca, infatti, nei capitoli 3-5 dell'opera polemizza con un altro filosofo stoico, Atenodoro, rilevando la sua arrendevolezza di fronte ad un problema capitale della filosofia: se l'uomo saggio debba o no impegnarsi politicamente, o se invece la politica di per sé impedisca a colui che ambisce a raggiungere la sapientia di agire conformemente ai propri principi. 

Seneca invita l'amico Anneo Sereno a non farsi abbattere dalle difficoltà, giacché colui che ha deciso di operare per la communis utilitas difficilmente può essere fermato dagli ostacoli che gli si presenteranno dinnanzi ed arriva ad affermare che << numquam enim usque eo sunt interclusa omnia ut nulli actioni locus honestae sint >> ( << mai infatti ci sono precluse tutte le strade, tanto che non ci sia spazio per alcuna azione virtuosa >> ). Con questa dichiarazione parenetica, Seneca abbraccia per il momento la scelta del << negotium >> ed esorta il suo interlocutore e i suoi lettori futuri a meditare sulla possibilità di continuare a servire lo Stato - che in questo caso si identifica con il princeps - anche quando sembrano venire meno le condizioni atte a garantire una politica ben fatta.

Nell'<< Agricola >> Tacito continua il discorso di Seneca, o meglio del Seneca che si faceva portavoce dell'impegno attivo, e nell'annosa questione se sia più utile o virtuoso per un uomo ostinarsi nell'opposizione ad un principe malvagio, o collaborare con lui in vista del superiore interesse della "respublica", egli sceglie senza alcun dubbio la seconda opzione. Afferma, infatti che << (...) posse etiam sub malis principibus magnos viros esse >> ( << anche sotto principi malvagi possono essservi uomini grandi >> ).

Trovo queste due opere moderne, per quanto possa essere positivo per un classico essere definito tale, nella misura in cui impostano un problema urgente anche per la nostra coscienza individuale: di fronte ad uno Stato vacante e difettoso, uno Stato che è manchevole nel farsi garante dei diritti fondamentali dell'uomo, quale è la posizione da tenere in vista del bene comune? 

L'intellettuale deve abdicare al suo ruolo scegliendo uno sdegnoso silenzio, abbracciare la rivolta facendosi discepolo delle parole del caro Camus, o collaborare attivamente con un contenitore di norme sempre più svuotato di senso? 

Ha senso oggi la protesta o conviene sempre e comunque rimanere in linea con quanto è progettato dai piani alti della società? 

Ha senso tacere, parlare sopra o parlare con la nostra politica, immaginando un futuro diverso? 

John Lennon, assassinato l'8 dicembre del 1980 da Mark David Chapman, ci invitava a protestare, ma ammetteva anche di essere un sognatore. Seneca fa scelte altalenanti, Tacito sceglie l'<>. A noi oggi non resta forse che il compito difficile di rimanere umani in un mondo sempre meno attento alle esigenze dell'individuo.

LA LETTERATURA TERAPEUTICA

Rileggere Dante nel tempo del Covid-19.

La pandemia è un po' come la selva dantesca: una dimensione di smarrimento collettivo, un territorio all'interno del quale è facile perdere momentaneamente la << verace via >>, sentirsi sfuocati, soli. In questo luogo desolato la Ragione ci viene incontro, ci tende una mano. Il primo passo verso la futura salvezza.

Ho in mano l'<< Inferno >>, sto leggendo il canto II. Qualcosa mi colpisce immediatamente, al punto che non posso non notarlo: il grido di Dante, la sua voglia di sapere perché ad un uomo come lui, di condizione tutto sommato media, un uomo condannato all'esilio dalla sua patria ingrata, sia concesso di attraversare l'inferno, dopo che uomini illustrissimi come Enea e San Paolo avevano avuto la grazia di potervi entrare ed uscire vivi. Dante sa bene che Enea ha potuto visitare l'Averno perché da lui sarebbe nato l'impero romano e la città santa di Roma, il luogo << u' siede il successor del maggior Piero >>, ossia la culla della cristianità occidentale. 

San Paolo poi ha dovuto compiere quel viaggio per rafforzare la fede dei cristiani. Ma lui perché mai ha il privilegio di poter salvarsi, pur dovendo attraversare il regno delle tenebre? Dante dubita del suo viaggio e lo definisce << folle >>. Questa è una parola chiave nel poema, dato che il nostro autore la riutilizzerà a proposito del viaggio di Ulisse, a significare la sfida che un uomo aveva osato lanciare al limite, all'auctoritas, percorrendo una rotta sconosciuta al di là delle Colonne d'Ercole. Dante dunque è titubante, il suo è un appello umanissimo alla Ragione, affinché gli fornisca una chiave di lettura di questa esperienza eccezionale. In quelle parole << io non Enea, io non Paulo sono >> c'è tutta l'incredulità di un uomo comune posto davanti ad un alto compito, ad una missione.

Dante ha la stessa identica paura che abbiamo noi uomini, oggi, posti davanti al mistero di ciò che non conosciamo; ha la stessa condotta dubbiosa di quanti oggi non sanno come affrontare i giorni che verranno, l'inferno della malattia, della povertà, della morte. 

Quante volte ci siamo chiesti parlando con la nostra coscienza raziocinante - il Virgilio che ci alberga dentro e che si amalgama con la nostra emotività - chi siamo per affrontare un viaggio così arduo, per portare un peso così oneroso; quante volte ci siamo sentiti indegni di misurarci con la difficoltà. 

Forse potrà venirci in aiuto la lettura di queste pagine, veder dipanarsi davanti ai nostri occhi il filo del viaggio dantesco e leggere dietro le righe di questa storia ancestrale la storia di ogni individuo che cerca con le proprie forze e con l'illuminazione spirituale una risposta al caos che porta dentro e a quello che invade il suo cuore dall'esterno. 

La << Commedia >>, a mio parere, non è solo un libro, è una farmacia di parole ed ogni verso ha come un balsamo capace di curare ogni ferita.

martedì 15 dicembre 2020

SCOPRIRE LA GALASSIA DAD

Una mia riflessione sulla DAD e dintorni La didattica a distanza è una galassia differente da quella in presenza. Su questo non ci sono dubbi. Quello che mi spaventa però è la ritrosia di alcuni colleghi a voler sintonizzarsi non tanto con il mezzo, quanto con quello che sta al di là del mezzo, cioè i ragazzi. 

Un insegnante difettoso di empatia in presenza, lo è anche a distanza, giacché la Dad non ha e mai avrà un impatto miracolistico su chi non ha mai praticato l'ascolto e il dialogo. La mia visione dopo due mesi di Dad è quella di sentirmi più ricca ogni volta che esco da una videolezione; trovo i ragazzi, pur nelle difficoltà di questa situazione liminare, liberi, sganciati da alcune sclerotizzazioni tipiche di un processo educativo trasmissivo unidirezionale, liberi intendo di raccontarsi, di raccontare la società di cui fanno parte. 

Credo che come in tutte le occasioni di relazione, anche quella educativa passi attraverso il modus operandi di chi sta in una relazione. 

Se il mio atteggiamento è la chiusura, non potrò pretendere di trovare dall'altra parte del monitor il dinamismo e la gioia dell'imparare; se invece mi porrò nella direzione di un'educazione in cui è l'educatore stesso a procedere, a riflettere, a mettersi in discussione quanto colui che apprende, il cammino sarà diverso: ci sarà un iter di crescita globale, un discorso vero nella misura in cui nessuno è esentato dal riflettere. 

Così si incontra l'altro, nel dialogo. Il dialogo è quella strada biforcata dove la rigidità del mio Io si slabbra ed entra in comunicazione con gli altri, la "paranoia" diventa gioia. Aprendo la mia parola, il mio discorso agli altri, in questo caso ai miei ragazzi, io posso dire di averli realmente incontrati e conosciuti.

Ho iniziato l'anno con persone che riflettevano solo a proposito delle marche di scarpe più in voga, oggi mi trovo a parlare di attualità, di politica, di sanità, di tutela del diverso, di diritto allo studio. Forse non diventeranno premi Nobel, neanche io lo diventerò. Ma non è questo il punto: il punto è che la scuola deve garantire a tutti il diritto di sentirsi INDISPENSABILI ED UNICI; deve premiare << la vite storta >>, per citare Recalcati, promuovere quel quid che rende una persona diversa dalle altre e per questo tanto più speciale, deve creare oasi, riserve naturali di parola, protette dall'incombere della mediocrità, deve parlare con e ascoltare i ragazzi. 

Una scuola sorda, una scuola muta, una scuola che si tappa gli occhi di fronte alle problematiche dei ragazzi è una scuola senza anima, una scuola docimologica dove il voto conta più di un percorso, la rigidità più della creatività, la chiusura entro certi schemi ormai vetusti più della libertà.

CORSI E RICORSI STORICI

Nel XXIV capitolo della sua opera più importante, << Il Principe >>, Machiavelli si chiedeva il motivo per il quale i principi italiani, dopo la crisi del 1494, avessero perso tutti i loro principati. La risposta gli risultava semplice: questi politici poco accorti non avevano saputo prevedere in tempi di quiete la tempesta che si sarebbe poi abbattuta sull'Italia. La Fortuna, raffigurata come un fiume in piena che abbatte argini ed abitazioni, appariva a Machiavelli come una forza gigantesca, per dominare la quale era necessaria la capacità del politico di prevederne i movimenti e i mutamenti. 

Egli affermava inoltre che questa grande figura era arbitra per metà delle sorti umane, giacché l'altra metà del controllo sulla sfera umana toccava alla virtù. Alla fine dell'opera, con grande acume, Machiavelli introduceva però una nota dolente, un pessimismo ulteriore che andava a sgretolare l'impalcatura apparentemente solida di questo in realtà precario equilibrio tra due forze: egli constatava infatti che nessun politico in Italia possedeva la dote della duttilità, ossia la capacità di adattare la propria condotta ai tempi e alle situazioni contingenti. 

Vorrei proporre questi due capitoli ( XXIV e XXV) all'attenzione di tutti coloro, profani o addetti ai lavori, che oggi hanno sotto gli occhi la situazione italiana. Forse anche ai nostri politici sono mancate le due doti che per il pensiero machiavelliano costituiscono l'ossatura del comportamento e dell'agire del vero principe/politico: la capacità di previsione e la duttilità. 
Consiglierei ai nostri politici e al nostro Premier una ripassatina veloce del trattato, che, non si sa mai, l'esperienza dei moderni ma anche la << lezione degli antiqui >> può talvolta fungere da strumento riparatore per i danni inferti al nostro Paese. 
Chissà che la letteratura non possa aiutare anche la nostra classe dirigente a riflettere sui propri errori e a riformulare per il futuro dei provvedimenti che siano più tempestivi e utili, ad impostare azioni efficaci ed in linea con i tempi, come il nostro caro Machiavelli ci insegna.

LA PAROLA DEI PADRI E DEI FIGLI NELLE COMMEDIE DI TERENZIO

In molte delle sue commedie, ma in particolar modo negli << Adelphoe >> e nell' << Heautontimoroumenos >>, Terenzio riflette sulla crisi del modello educativo patriarcale e invita i "senes", ossia i padri anziani, all'indulgenza e alla tolleranza verso le nuove generazioni. Fu un messaggio rivoluzionario per una società, come quella romana, all'interno della quale il pater familias aveva persino il diritto di vita e di morte sui figli. Evidentemente qualcosa si era sfaldato in quel sistema "repressivo". 

La famiglia edipica, autoritaria e detentrice della parola unica, veniva messa in discussione in vista di un nuovo modello familiare che gravitava intorno all'idea di humanitas. Terenzio respirava un'aria di osmosi culturale tra mondo greco e mondo latino, frequentava il << circolo degli scipioni >> ed era avvezzo ad ascoltare uomini illustri come Scipione Emiliano e Gaio Lelio - che diventeranno poi i protagonisti dei dialoghi ciceroniani - parlare di valori alti come la solidarietà, il rispetto, la filantropia. 

Una delle massime più celebri di Terenzio, << homo sum: humani nihil a me alienum puto >>, riassume questo pensiero di comprensione verso l'altro, di indulgenza verso i propri limiti e quelli altrui, di protezione dell'umano in quanto esposto ai colpi della sorte volubile e quindi tanto più amabile nella sua fallibilità. Terenzio riscatta la parola dei figli in un mondo fino a quel momento dominato dalla parola infallibile dei padri. Cosa significa questo? Certamente che si stava formando una crepa nella compattezza del mos, che il dialogo - e qui si gioca il ruolo determinante della filosofia greca - stava incrinando la società monologante dei padri, che il conflitto generazionale diventava dialettico, realmente conflittuale, dal momento che entrambe le parole rivendicavano il proprio peso in termini di verità. Terenzio introduce il relativismo etico, le sue verità sono tante come gli spicchi di un agrume, la verità non è mai appannaggio di una sola categoria, ma una conquista personale che può di volta in volta essere reperita in mani differenti. Il suo messaggio era pericoloso perché toglieva ai padri l'imprimatur sulle azioni dei figli, e ricordava loro che l'unica forma possibile di sopravvivenza era quella fondata sui valori dell'umanità, dello scambio e della parola curativa. 

Oggi siamo in una società dove è difficile distinguere i padri dai figli, dove i limiti tra generazioni si assottigliano. Terenzio ci ricorda invece che alla base della dialogicità c'è la dimensione del limite: il padre clemente ed indulgente non è un figlio, ma un padre dal volto umano; un figlio che dà consigli al padre, pur nella sua assennatezza, non è un padre.

 Si può cogliere allora il valore intrinseco alla massima terenziana: l'umanità va salvaguardata proprio in questa sua non omogeneità, nella sua impossibilità di ridurre l'uno all'altro, nel discrimine che ci caratterizza come individui, nella peculiarità che ci rende singolari. E in questa umanità la parola dei padri e quella dei figli si armonizzano, è una parola che abbraccia, una parola che guarisce.

(M)EDITANDO -L'OPERA OLTRE L' AUTORE

Si concude lunedì 30 maggio 2022 il ciclo di incontri denominato "Autori oltre il tempo rovinoso", la rassegna di appuntamenti, co...